Pensare resta il lavoro più difficile
Il 18 novembre scorso c’è stato un down di ChatGPT. O meglio, alcuni problemi con Cloudflare hanno reso inaccessibili molti siti, tra cui una delle AI più utilizzate.
Questi assistenti di intelligenza artificiale — il tema del gender meriterebbe un capitolo a parte — sono sempre più capillari nelle nostre vite private e professionali, e per questo entrano anche nell’ultimo pezzo del magazine per quest’anno.
Ma torniamo a quel pomeriggio. Nel mondo, in quelle quattro ore c’è chi è tornato a googlare, chi ha preferito tradire cercando un approccio con Gemini o altre alternative, chi ha aspettato facendosi un caffè. Nel nostro open space si è accesa una riflessione che, dopo essere maturata nelle chiacchiere di qualche settimana, trova ora un’argomentazione. Scritta così, a mano libera, senza prompt o suggerimenti. Per ricordarsi il piacere di confrontarsi con i propri strumenti — ma su questo ci torniamo.
Al centro, una domanda: cos’è l’AI senza di noi? Cos’è l’AI senza IO? Un “io” inteso come persona. Un “io” creativo, un “io” grafico, un “io” stratega.
Andiamo al punto: un essere pensante con uno sguardo, uno stile e un gusto — parole semplici ma preziose perché definiscono un qualcosa di innato e non ricreabile. Ma non solo. Un “io” con una sua cultura (nell’accezione più ampia), con un proprio immaginario di riferimenti, fatto di reference visive, verbali, sensibilità, conoscenza del proprio mestiere. In più, pensiero critico.
Ecco, siamo inciampati in un esempio perfetto che aiuta a sbrogliare le mille riflessioni sull’intelligenza artificiale che abbiamo in testa. “In più, pensiero critico.” è una frase nominale: l’AI ce l’avrebbe mai proposta? Probabilmente no. Lo avrebbe fatto se noi avessimo chiesto una prosa incisiva, muscolare a tratti, più colloquiale e meno impostata. Un testo. Con ritmo. Così avremmo scritto, per farle (o fargli?) capire. Lo avrebbe fatto se guidata. Questo è il punto: l’intelligenza artificiale ha bisogno di qualcuno del mestiere che la orienti, di un immaginario che la nutra, di una sensibilità che la indirizzi. Non ci libera dal pensare: ci chiede di farlo meglio.
Ciò che riguarda il mondo del digitale è nel nostro DNA, perciò ci è naturale ricercare, adoperare, testare strumenti nuovi, AI compresa. Il fatto che semplifichino o velocizzino alcune fasi del lavoro è un’opportunità. Ci permette di essere più incisivi sugli aspetti operativi di un progetto, e soprattutto di concentrarci molto su quelli strategici. Il paradosso è che, se usata bene, l’AI libera tempo per pensare.
Tutto vero, purché la curiosità, non a caso tra i nostri valori, ci aiuti a superare i due grandi contro dell’intelligenza artificiale. La pigrizia, perché per natura come persone tendiamo a cercare la strada più breve, e la dipendenza, cioè non riuscire a fare a meno di Gemini e compagnia. Su questo un’ultima considerazione che si ricollega a un punto emerso prima: il fattore soddisfazione. La sensazione è che trascorrere troppo tempo a chattare con un bot faccia perdere sapore a uno dei mestieri più belli — siamo di parte — cioè creare. È successo anche a voi?
Creare dovrebbe sorprendere, gli altri e noi stessi in primis. Ma per creare, si sa, serve ispirazione.
Occorre alimentare, lo dicevamo poco sopra, il nostro immaginario. E qui, plot twist. Questa riflessione era un lungo entry point per portarci in fondo e condividere una lista di film, libri e belle cose a cui dedicarsi durante le feste. Per passare il tempo, per ricaricare le pile di idee dopo un anno trascorso a crearne, per svagarsi un po’, fate voi. Allora AI, ti abbiamo stupito?